La sregolatezza viene osannata solo quando lo sregolato in
questione è ben lontano dal proprio bisogno di stabilità o, meglio, sotto
terra.
Roberto D'Izzia, 07/09/2011
La sregolatezza viene osannata solo quando lo sregolato in
questione è ben lontano dal proprio bisogno di stabilità o, meglio, sotto
terra.
Roberto D'Izzia, 07/09/2011
Miei cari bimbi sperduti nella penisola che purtroppo c'è,
come state?
Avete
comprato il contagocce per consumare con parsimonia le vostre risorse d’acqua,
in vista della prossima guerra post atomica in stile MadMax?
No,
scusate, faccio subito marcia indietro, questo è un post che nasce dal cuore
come tutti gli altri, ma non si trasformerà in satira pungente o qualcosa del
genere; ho preso la tastiera in mano per trasformare lacrime in parole, perché
in questi giorni sento la mancanza di una persona che - a sua insaputa,
ovviamente – è stata punto di riferimento molto importante nella mia vita.
Non ci
crederete, ma questo è un post dolce e tremendamente sentimentale.
(ma smettila!)
Ho già scritto di lui, il giorno in cui è morto, nel vecchio blog (leggi il post Caro amico, ti scrivo) e non sto a ripetere il perché mi ha influenzato dall’infanzia, tantomeno a ripescare dalla memoria ricordi falsati da anni di vita psichedelica e fuori controllo.
Ognuno di
noi mitizza il periodo d’infanzia, ci si attacca come un mitile, fino a
diventare esso stesso una cozza attaccata furiosamente al palo sommerso della
propria emotività arcaica, ed è per questo motivo che spesso i ricordi si
confondono con le fantasie, quelle passate e quelle presenti.
Piuttosto,
ho voglia di scrivere l’emozione che mi dà ascoltare la sua
capacità creativa, davvero sorprendente se si pensa che non studiò al
conservatorio, e che ogni volta mi lascia basito.
Certo, non
tutte le ciambelle vengono col buco, e non essendo io un feticista, evito di
spararvi cazzate del tipo “ah, tutte le sue canzoni sono capolavori”; non è
vero, trovo che alcuni brani di Lucio siano davvero inascoltabili, così come lo
sono alcuni brani di Vasco, e altri di Rino Gaetano o Giorgio Gaber – così vi ho citato i miei
artisti di riferimento, e potete tirarmi dietro le vostre inutili pietre.
Scrivere
una canzone è un atto creativo davvero complesso.
Per
scrivere pezzi come 1983, Henna, La Signora, Il cucciolo Alfredo, Felicità, Mambo o, naturalmente, l’eterna L’anno che verrà ci vuole anche un tocco di follia, qualcosa che nessun altro farebbe al posto
tuo, ma che tu senti e sai di poter fare.
Mh, sorrido,
miei sbandati lettori, perché un istante dopo aver scritto le suddette, apro il
dizionario Treccani, e alla parola Follìa trovo la spiegazione “[…]In senso
concr., atto da pazzo, cioè temerario o imprudente, […]: fare, commettere delle
f.; ritengo una f. mettersi in mare con quest’uragano; e di cose che si
ritengono irrealizzabili, impossibili[…]”.
Beh, penso
a Lucio Dalla che dirige l’orchestra di Sanremo, o crea un programma in prima
serata su Raiuno con Sabrina Ferilli e lo intitola La bella e la Besthia (con
l’acca), che produce un vino in Sicilia chiamato Lo stronzetto dell’Etna (appellativo
ricevuto da Carmelo Bene dopo una sbornia), lo rivedo che si presenta ad un
evento indossando un’enorme testa da cavallo di gomma, oppure che gira per
strada – come racconta la zia di un mio amico – in accappatoio di primo mattino.
Ecco che
improvvisamente la parola follia perde la sua accezione negativa e fastidiosa,
ed improvvisamente diviene ingrediente necessario per la miscela segreta di
tanta virtù musicale, l’unica spiegazione possibile per le capacità autoriali,
ma anche strumentali, del piccolo grande compositore.
Potreste obiettarmi
che la storia è piena di geni musicali, ed io vi contro-ribatto che non me ne
frega un cazzo, che è banale confrontare tanti artisti diversi, e soprattutto
questo è un post su Lucio Dalla, non la lista della spesa.
Ascoltare i
primi ventisei secondi di Com’è profondo il mare vuol
dire essere trasportati improvvisamente in una dimensione parallela, una messa
in scena lattiginosa sospesa nell’aria in cui si svolge la tragedia in atto
unico della società moderna, e Lucio lo sapeva, per questo giocava molto con la
sua teatralità, anzi, Lucio era teatro-canzone.
Questo mi sconvolge.
Com’è possibile che io rimanga così colpito da un brano che ho sentito e
risentito centinaia, migliaia di volte nella mia vita?
Com’è
possibile che nel cantare la prima strofa della già citata L’anno che verrà l’emozione
mi soffochi la gola, e non riesca a tirare fuori una parola?
Se mi
trovassi ancora davanti a Lucio, questa volta forse gli parlerei da uomo adulto,
o rifarei la stessa cosa stupida che ho fatto tanti anni fa stringendogli la
mano, e cioè starei zitto: l’emozione è nostra nemica.
La luna è
sempre la stessa puttana che si prende gioco di noi, di tanto in tanto, le
stelle sono là, a ricordarci che siamo solo polvere, i cani abbaiano in
lontananza, gli amici innamorati fra loro sulle panchine di Rimini non si
vedono più perché i tempi cambiano.
Siamo
ancora fra le tenaglie di Russi e Americani, ma tutto è confuso, tutto diventa banale,
tutti sono lupi.
Fra vent’anni
chi lo sa, forse i telefoni non ci saranno neanche più, non ci toccheremo più, e
probabilmente la moda del momento sarà mettersi lo stronzo nella fronte, ma
nessuno si ricorderà il perché.
Sì, molto poetica
come idea, ma è una cazzata patetica da blog; quando incontri uno non puoi
dirgli tutte queste cose.
E allora, se incontrassi Lucio Dalla, gli direi: ma sai che dove abito adesso è pieno di rondini, tutte le sere le sento cantare e penso a te?
Brano musicale: Le Rondini, Lucio Dalla
Parole chiave del post:
#LucioDalla
#lerondini
#rinogaetano
#VascoRossi
#GiorgioGaber
#CarmeloBene
#stronzettodelletna
#labellaelabesthia
#lannocheverrà
#caroamicotiscrivo
Applausi fra i maschi texani che avevano sempre desiderato diventare padri e nonni, contemporaneamente.
Ma perché vuoi prenderti la briga di rimandare a domani qualcosa che potresti decidere direttamente di non fare più?
(Roberto D'Izzia, 24/06/2022)
Jennifer Lopez, sul palco del L.A.D.F. Blue Diamond Gala ha presentato sua figlia Emme con i pronomi neutri “They” e “Them”, in rispetto alla sua autodeterminazione non-binary.
Quando ha detto “Dai, Lopez, cominciamo a cantare”, 23 mila ispanici hanno lasciato le poltrone e si sono lanciati verso i microfoni.
Purtroppo sono stati
bloccati dalla sicurezza.
Chiarito il
malinteso, i conterranei della brava JLO sono tornati delusi alle loro sedie.
Solo in quel momento il pubblico ha capito perché per il biglietto della serata hanno speso dai 44 ai 1.250 dollari: Emme s’è portata 50 amici sul palco.
Parole chiave del post:
#Jenniferlopez
#Emmelopez
#nogender
#nonbinary
#xpensivedivas
#LADFGala
#ricchi
#simpaticicomeapenelcasco
Siete ancora confusi dagli
articoli di giornale che sparano numeri a cazzo sui risultati del Referendum
2022, o finalmente vi siete chiariti le idee su come rigurgita l’informazione
in Italia?
Questo sarà un post
romantico – oh, Rò, si vede dall’incipit – ma prima volevo farmi quattro risate
con voi sul fatto che non c’è una testata che riporti numeri uguali sul referendum, e
soprattutto “versioni dei fatti” uguali alle altre; per carità, la diversità è
bella, e bla bla bla, ma se sul sito del Governo Italiano c’è scritto che il
numero ufficiale di personcine chiamate a votare è 50.915.402 (leggi QUI I DATI UFFICIALI),
perché sparare numeri ad minchiam oppure, dopo qualche giorno, far sparire
dagli articoli online questo specifico dato, scrivendo solo delle parzialissime
percentuali?
Anche le postille dei
giornalisti sono simpatiche, tipo quella che ho letto un po’ ovunque, che
recita più o meno “vittoria schiacciante del 5° quesito, che ha raggiunto il
72%”.
Ora, non vorrei essere
troppo pignolo, ma l’affluenza al referendum è stata in media del 20.9%; facendo finta che proprio fra questi valorosi votanti salta fuori il suddetto
72% (a proposito, io ho fatto il mio dovere, e voi?), in matematica si traduce
in 1 x 0,2090 x 0,72 = 15,05% del totale; cioè, esiste un corposo restante
84,95% della popolazione fatto di gente che se n’è sbattuta altamente le pallette del quesito
ed ha preferito abbronzarsi in spiaggia, sommata a quelli che hanno votato NO.
Se voi foste giornalisti
scrivereste “vittoria schiacciante con il 72% per il SI”?
Eh lo so, con tutti questi
numeri sei confuso, ma ricordati che l’unica stella per orientarti sei te
stesso: tu e la tua vita (sì sì, sono passato dal voi al tu, ma è
il mio blog, è il mio monologo, e faccio un po’ quello che mi pare, va bene?).
Già, la vita.
A questo punto dovrebbe
partire una qualche musica blues, o ambient, da filmetto anni ’80 di quarta
categoria.
La vita che non hai scelto
di vivere come qualcuno ti obbliga a credere da sempre, incolpandoti di
qualsiasi stronzata ti capiti, ma che ti piomba addosso di giorno in giorno,
con la stessa imprevedibilità del ragno che sbuca all’improvviso dal colletto
della tua maglia, e che era rimasto lì, per un giorno intero senza neanche
farsi sentire.
Un flusso continuo di eventi
ripetitivi eppur strani, inafferrabili, che ti costringe a fare sempre passi
avanti, senza darti il tempo di fermarti per riposare, e pensare.
Il susseguirsi meraviglioso
di sole e luna, notte e giorno, albe cinerine e tramonti agrumati,
costellazioni che non riuscirai mai a collocare nel punto giusto della tua
memoria, e nuvole paffute che galleggiano sornione.
La vita, mio sudaticcio e
piagnucoloso bimbo sperduto nella penisola che purtroppo c’è, quella
incredibile somma di ore che butti nel cesso sperando che ci sia un domani
migliore, un domani in cui sarai più allegro e fortunato, più sano e simpatico,
più ricco e ben voluto, e soprattutto meno sfigato di adesso.
Beh, lascia che ti dia una
notizia scientifica: quel domani non esiste, lo scarico del cesso prima o poi
si intaserà e, non esistendo un idraulico in grado di risolvere problemi
esistenziali, finirai - prima o poi - sommerso in un bel mare di merda.
Tutta la tua merda.
Perché quel figlio non
uscirà più con te, domani, se non ci esci adesso, e lo stesso vale con quel
fratello, quell’amica, quel padre, quel cazzo che ti pare.
E, attento, anche tu stesso,
non uscirai più da solo, se non lo fai adesso.
Perché uscire da soli fa
bene. Uscire per uscire, non per svolgere una qualche mansione.
Parlare col barista, con
nessuno, scrivere pensieri su fogli di carta, mettere le mani in tasca e
passeggiare fra le foglie, respirare, ascoltare la musica che cazzo questa
non la sentivo da vent’anni, piangere, mangiare schifezze, alzarsi di notte
e ascoltare le rane.
Ridere.
Non si può smettere di
ridere.
Ed ecco, ecco l’altra stella
polare, l’ironia.
Qualche giorno fa vado a
prendere di che nutrirmi alla piadineria di fiducia; mentre attendo che mi
consegnino il cibo, entra un ragazzone alto, piazzato, che si rivolge alla
piadinara con tono serissimo, e dice «è un problema se sono entrato senza
avvisare prima?»
Lei, molto affabile, non
coglie neanche la domanda perché, cazzo, non le sembra vera, e gli chiede di
ripetere, e il ragazzo dall’aspetto imponente ripete, con lo stesso identico
tono: «è un problema se sono entrato senza avvisare prima?»
Io non mi trattengo, e col sorriso
dico «Beh, se non sei la Finanza no», e ridiamo sommessamente tutti.
Il tipo è serissimo. Le
risate si chiudono lì. La piadinara smorza il momento di imbarazzo e lo serve.
Capisci cosa intendo per
ironia?
L’ironia alleggerisce il tuo
cammino, ed è come fare acquagym sulla luna anziché sudare come una bestia in
piscina.
Che bella immagine eh? Il
cinghialetto che salta come un matto sotto l’acqua a ritmo di zumba mentre
sulla luna c’è un ippopotamo che salta leggiadro di roccia in roccia, di
cratere in cratere, restando sulla punta dei piedi, senza la benché minima
fatica.
Io sono l’ippopotamo, amico,
perché ci rido su, tu il cinghialetto.
Trattenere i sorrisi non
serve a un cazzo.
La tua vita è fragile, è
piccola cosa, cosa pensi di risolvere tenendola tutta per te?
Gli oggetti luccicanti su
cui posi il culo e che mostri agli altri genitori, la mattina davanti
all’asilo, sono solo un ammasso di materie prime estratte probabilmente in
paesi dove lo sfruttamento di risorse minerarie genera disastri geologici ed
umanitari; io, se fossi in te, non sarei tanto contento di farmici vedere
sopra, soprattutto a motore acceso, mentre inquino l’aria e contribuisco felice
all’avvento delle prossime stagflazioni mondiali.
La vita è qualcosa di più.
Un soffio, una poesia.
Un rutto.
Ah sì, ho rovinato il testo?
E perché? Sentiamo, perché
ho scritto “rutto” dopo “poesia”?
E dimmi un po’, milord, da
quanto tempo non rutti più, eh?
Liberamente, apertamente,
felicemente, animalescamente.
Da quanto tempo non ti
compri un bel pacchetto di patatine salatissime, una bella birra fresca, o una qualunque bibita gassata, e ti fermi per strada per farti uno spuntino per i cazzi tuoi,
felice di sgranocchiare con calma e gusto quelle specie di sottoprodotti di
tubero industriale, ti lecchi le dita, e poi bevi a canna senza sosta fino a
fare un bel sospirone.
Glùppete Glùppete Glùppete:
Ahhahahhh.
E poi, ti alzi, ti pulisci
le mani, e torni a quello che stavi facendo, alla finta vita che ti vuole
rapire a tutti i costi, il lupo nero del nulla con zanne lunghe e bianchi occhi
senza vita della Storia Infinita, che corre e corre e mangia tutta la realtà
che ti circonda, i colori, le emozioni, la fantasia, e ti fa scappare col cuore
in gola.
Hai paura, una paura che non
sai definire, atavica, paura degli altri, paura del lavoro, paura della notte,
paura del sesso, paura della povertà, paura del cibo, paura della malattia,
paura della paura.
La paura è una sola, amico
mio, la paura è Paura, ed è quella che non ti lascia sorridere al cameriere che
ti sta servendo, che non ti fa salutare le persone in spiaggia dopo tre ore che
ci stai accanto e loro si alzano per andare a casa, e più volte i loro bambini avevano
mandato la loro palla verso di te, ma tu sorridendo avevi detto “non importa”,
quella che non ti fa andare al concerto del tuo gruppo preferito che finalmente
di esibisce a pochi chilometri da casa tua, e il prezzo del biglietto è
incredibilmente abbordabile, ma tu quella sera resterai a casa e farai finta di
niente.
La paura è quella che non ti
fa fare l’attivista per cause in cui credi, quella che non ti fa scrivere anche
se lo sai– o sì, lo sai – che scrivi benissimo quando ti ci metti, quella che
non ti fa iniziare un corso che ti piace anche se è gratis perché offerto da un
qualche ente.
La paura che non ti fa
cucinare i tuoi piatti preferiti, e ti adegui alla merda preconfezionata, la
paura di cambiare abitudini, la paura di fare un viaggio, anche brevissimo, la
paura degli animali.
Gli animali.
Ho lavorato a contatto con
gli animali, in una fattoria didattica.
All’alba, l’asino ti guarda
fisso negli occhi, in silenzio, per diversi minuti, poi muove le orecchie, ti
tira una piccola testata, e se ne va.
Le oche ti girano intorno,
in silenzio, perché urlano solo a chi le tratta male.
I cavalli si fanno un po’ i
cazzi loro, odiano farsi toccare.
Le tartarughe mangiano un
po’ di insalatina, ma per lo più riposano all’ombra, tranquille.
Il maiale ha fame e mangia come un porco tutti i pastoni che gli prepari, ma non
vuole coccole.
Il gatto, mmhh.. il gatto,
caccia i topi, e poi rompe le palle perché vuole il cibo in crocchette, anche se stai lì a lavorare con i
bambini della scuola.
Le mucche.
Le mucche ti
guardano con gli occhi grandi e profondi, abbassano la testa, si spostano, mangiano la loro biada, sbuffano, e
aspettano inconsapevoli la loro fine.
I tori sono tori, e fanno i
tori, non ti consiglio di avvicinarti troppo.
Le pecore hanno una paura
fottuta degli esseri umani, a buon ragione, e se le spaventi, cadono di
botto, irrigidite. I bambini si divertono a fare questa cosa, perché sono
innocentemente cattivi.
Tutto cambia, fra gli
animali.
Devi rispettare i loro
tempi, e amare i loro odori.
La merda delle mucche
profuma di biada, è l’ammendante misto che puzza e di cui ti lamenti come un moccioso viziato quando
guidi a tutta velocità, e anche se hai l’aria
condizionata e i finestrini tirati su, l’odore arriva comunque dai campi appena concimati dentro al tuo mondo metallico.
Quando stai con gli animali, ed entri
in sintonia con loro, capisci che la tua paura di vivere forse è solo un
costrutto della società umana, qualcosa di cui puoi fare benissimo a meno.
Fare a meno della paura, per
vivere, e ridere.
Io non so come, mio caro lettore, altrimenti mi sarei
laureato in psicologia ed avrei chiesto soldi per dare consigli agli altri, ma
una cosa posso dirtela: tutte le volte in cui ho smesso di avere paura, ho
fatto cose grandiose, che nessuno potrà mai cancellare dalla mia esistenza.
Poi, ho imparato anche io a suonare la
chitarra; la portavo durante occupazioni ed assemblee, esibendomi in pezzi
strani - ed è probabilmente per questo motivo che restavo solo con le mie corde
- di Vasco, Lucio Dalla e Rino Gaetano.
Soprattutto, Rino Gaetano, le cui canzoni
avrei cantato e suonato al Verano, davanti al suo loculo, anni dopo.
Lì, sì, in coro, con tanti altri, da tutta
Italia.
Senza troppi muscoli da mostrare, ma con
qualche lacrima di gioia della condivisione, e amore per l'arte pura.
Ciao Rino.